Il “Monjour” di Silvia Gribaudi per una platea che ha un patto segreto con chi danza

Il “Monjour” di Silvia Gribaudi per una platea che ha un patto segreto con chi danza

di Francesca Rosso La Stampa Torino

«Monjour» è l’incontro fra «Mon», mio e «Bonjour», buongiorno, perché è nato in montagna dove ci si saluta sempre e perché ogni istante è quello giusto per incontrare l’altro. In più fa sorridere e l’ironia è la cifra stilistica di Silvia Gribaudi, coreografa e performer che, dopo aver aperto l’edizione 2020 di Torinodanza con «Festa! » , torna al Festival domani e sabato 9 ottobre alle 20, 45 alle Fonderie Limone di Moncalieri. «Monjour», prima nazionale, prodotto da Torinodanza con Teatro Stabile del Veneto e Les Halles de Schaerbeek, chiude un percorso di due anni con il progetto europeo Alcotra Corpo Links Cluster e indaga il rapporto tra corpo e comicità nello scambio tra spettatori e artisti. In scena con Gribaudi Salvatore Cappello, Nicola Simone Cisternino, Riccardo Guratti, Fabio Magnani e Timotheìe-Aïna Meiffren.

Qual è il tema di “Monjour”?
«Una riflessione sul dono e come possiamo dare di più per esserci davvero. È anche uno studio sull’umorismo ma mentre in “Graces” l’azione comica nasce nella relazione fra ritmo e performer, qui dal rapporto col fumetto di Francesca Ghermandi e la drammaturgia di Matteo Maffesanti».

Fa effetto tornare in teatro?
«C’è un nuovo modo di ascoltarsi. È come se si potesse vivere la relazione solo dopo un po’ di silenzio. Mentre prima avrei detto “forza muoviamoci” ora dico “andiamo insieme per non perdere pezzi”, essere troppo veloci rischia di farci perdere l’esperienza passata. Non ho certezze e tento esperimenti: le regole cambiano sempre e ci vuole flessibilità per abitare il continuo cambiamento».Come si trasforma tutto questo in qualcosa di umoristico?
«Lavoro sull’aspettativa. Se dico “non c’è nulla da ridere” questo smuove già un sorriso. L’ironia è una dimensione dello spirito mentre la risata è un’azione ritmica che nasce da stati emotivi. Cerco quel sorriso interiore che non ha nulla a che vedere con il cabaret».

Cosa è la relazione fra pubblico e performer?
«È dove si gioca la danza. Si muove fra la platea e il palco, crea un flusso sottile, vivo, misterioso, come un patto segreto. Mi piace vedere quando si interrompe. È come un quadro i cui tratti devono essere corretti dopo ogni sera ma il giorno dopo cambia ancora».

Qual è il punto di forza della sua ricerca?
«Lo spaesamento continuo e la costante uscita dalla comfort zone. Ad esempio, di solito uso musica classica mentre qui le musiche di Nicola Ratti incontrano le note di Rossini. I suoni sono calmi, i disegni forti e i corpi un ponte necessario. Esploriamo cosa succede nel non essere a nostro agio, nel buttarci oltre i limiti. Ogni gesto è un seme, un nuovo inizio per non rischiare di ripeterci e per capire come possiamo essere più elastici e stare nelle differenze senza pacchetti preconfezionati». —

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